Eigg, Moira e la melodia che non voleva finire
Ci sono isole che non vogliono niente.
Non chiedono documenti, non vendono souvenir.
Non ti salutano nemmeno.
Ti vogliono solo vuoto.
Senza programma.
Senza aspettative.
Senza batteria nel telefono — e, con un po’ di fortuna, anche senza campo.
Perché l’unica connessione che vale lì… è quella con quello che non stavi cercando.
Eigg è così.
Una delle Piccole Ebridi, nascosta tra l’Atlantico e una malinconia antica.
Non la trovi in copertina, non la incontri per caso.
Ci devi andare per sbaglio o per destino.
Che in fondo sono la stessa cosa.
È un grumo di verde denso, grigiastro, increspato da scogli e brughiera,
che galleggia sul mare come un pensiero che non se ne va.
Sembra compatta, ma se la guardi bene non finisce mai.
La nebbia cambia ogni dieci minuti.
Il vento ogni sette.
Il cielo non si decide mai — e questo lo rende terribilmente sincero.
Ci sono sentieri, ma non strade.
Non perché non si possa.
Ma perché l’isola non vuole.
Ogni via si arrampica a modo suo, con curve che sembrano sbagliate,
ma poi ti portano esattamente dove non pensavi di arrivare.
E tra tutti i sentieri,
ce n’è uno che si stacca appena dopo il bosco dei licheni bluastri —
sale storto, morde un crinale, poi si apre in un silenzio pieno.
Lì c’è una casa bianca.
Isolata.
Con una sola finestra rivolta a ovest.
Come se stesse aspettando il tramonto, ma non avesse fretta.
Lì vive Moira.
Moira non è anziana.
Non ha capelli bianchi né occhi da veggente.
Non ha collane strane, né fumo che la precede.
Ha ventotto anni.
Una pelle chiara che sembra non voler prendere il sole.
E una tuta da apicoltura talmente usurata da sembrare un costume da teatro rurale.
Macchie di fumo, terra e cera.
Il colletto slacciato, le maniche rimboccate,
e gli stivali infangati in un modo che ti fa capire che qui piove anche quando non piove.
Mi ha guardato solo un attimo.
Poi ha detto, senza nemmeno sorridere:
“Il vento oggi è disordinato.
Ti va un po’ di pane all’ortica?”
Una frase che, in un altro luogo, mi avrebbe fatto alzare un sopracciglio.
Lì invece…
mi è sembrata perfettamente plausibile.
Ho detto sì.
Per fame, per curiosità o per pura resa spirituale.
Mi ha fatto sedere su una panca fuori dalla casa.
Davanti a me, un piatto di legno con due fette scure, ruvide, bollenti.
Il pane all’ortica profuma di erba, terra, e un pizzico di qualcosa che non dovrebbe confortare… e invece sì.
Mentre mangiavo, Moira non ha chiesto nulla.
Non mi ha chiesto da dove venivo, né perché fossi lì.
Si è solo allontanata, silenziosa.
E ha cominciato a spostare cassette d’api.
Le sollevava, ne annusava l’aria, le girava verso sud o verso nord,
in base a qualcosa che io non vedevo, ma lei… capiva perfettamente.
Dopo qualche minuto è tornata.
Ha poggiato una tazza fumante accanto al piatto e ha detto:
“Il tuo umore oggi è spostato verso l’occidente.
Le api l’hanno capito subito.”
Poi ha aggiunto, quasi a se stessa:
“Le api capiscono cosa porti addosso.
Se sei triste, ti girano intorno.
Se sei arrabbiato, ti ignorano.
Se sei innamorato… ti pungono piano.
Non per farti male.
Per ricordarti che esisti.”
La sera ho dormito nella stalla trasformata in stanza.
Il pavimento era irregolare.
C’era una coperta di lana ruvida,
e sopra il letto, appesa con un filo di spago, una piuma nera e una piccola chiave senza serratura.
Nell’aria:
odore di fieno,
di fumo antico,
e quella strana, inspiegabile fragranza che si sente solo quando qualcosa in te si sta sistemando senza chiederti il permesso.
Non avevo sonno.
Ma non ero agitato.
Solo… temporaneamente in pace.
E a Eigg, la pace non si chiede.
Arriva quando smetti di volerla spiegare.
A Eigg succedono cose.
Ma non nel senso “uh guarda, una foca che salta”.
No.
Succedono cose storte. Lente. Naturali, ma storte.
Cose che se le racconti sembri pazzo,
ma se le vivi… ti sembrano l’unico modo in cui potevano andare.
Per esempio, c’è un lago.
Si chiama Loch nam Ban Mora, “Il lago delle donne alte”.
Non ha sponde chiare.
Non ha riflessi ordinati.
E si dice che ogni tanto cambia direzione.
Non il vento.
Il lago.
Quando non lo guardi, le onde si spostano in un altro verso.
Come se il tempo, lì, avesse un’abitudine tutta sua.
L’ho visto io stesso.
Un attimo prima increspato verso nord.
Due secondi dopo… tutto invertito.
Moira ha detto solo:
“Deve aver pensato a qualcosa di diverso.”
Poi c’è un sentiero.
Lo prendi da dietro la vecchia scuola abbandonata.
Giri a destra, poi in salita.
Sembra una scorciatoia.
Ma non importa quante volte cambi strada,
il sentiero… ti riporta sempre lì.
A una radura con tre alberi storti, una pietra rotonda e un vecchio contenitore arrugginito che sembra uscito da una poesia post-apocalittica.
Moira lo chiama:
“Il posto che non ti lascia andare.”
E poi c’è l’uomo degli uccelli.
Veste di giallo pallido. Sempre.
Ha un cappello da pioggia anche quando non piove,
e un bastone con una conchiglia appesa.
Si siede sulle rocce vicino al faro e parla solo con gli uccelli marini.
Non a voce alta.
A bassa voce.
Come se si stessero raccontando segreti vecchi di secoli.
Ogni tanto ride.
Ma non guarda nessuno.
Sorride come chi ha appena capito qualcosa di troppo grande per essere spiegato.
E poi c’è la collina.
La collina con una panca sola.
Verde muschiato.
Alta abbastanza da farti dimenticare il mare per un po’.
Lì non ci va quasi nessuno.
Non per paura.
Ma per una specie di rispetto.
Moira mi ci ha portato.
In silenzio.
Camminando davanti a me, con le mani in tasca e la giacca larga che si gonfiava come una vela.
Quando siamo arrivati, mi ha solo detto:
“Siediti. Se senti qualcosa, non dirlo ad alta voce.
Potrebbe restare con te.”
Io ho fatto come ha detto.
Mi sono seduto.
E ho aspettato.
Il vento… non so se suonava.
O se qualcosa suonava attraverso il vento.
Ma una melodia c’era.
Lontana. Antica.
Non fatta di strumenti, ma di spostamenti.
Come se qualcuno, da molto tempo, stesse ancora cercando la nota giusta.
Non l’ho detta ad alta voce.
Non ho nemmeno respirato troppo forte.
Perché in quel momento ho pensato:
“Se la nomino, la porto via.”
E quella musica non era mia.
Era dell’isola.
La sera era scesa senza far rumore.
Solo qualche nuvola più grigia del previsto e un vento che non si decideva se restare o andare.
Moira aveva acceso il fuoco nella stufa con un fiammifero solo.
Non si era seduta subito.
Si era messa a girare una tazza nel palmo come fosse una conchiglia.
Poi, quando la luce era giusta,
quando anche le api dormivano,
ha cominciato a parlare.
La voce era piana.
Né affettuosa né solenne.
Come se stesse leggendo il meteo del secolo scorso,
una cosa accaduta, ma che nessuno più controlla.
“Tanto tempo fa,” ha detto,
“Eigg era abitata solo da un uomo. Un musicista. Nessuno sapeva da dove fosse venuto. Nessuno sapeva il suo nome.”
Non parlava.
Non scriveva.
Non guardava in faccia chi passava per caso.
“Suonava. Sempre la stessa melodia.
Tutti i giorni. Alla stessa ora.
Sempre lo stesso inizio…
ma mai lo stesso finale. Perché aspettava.”
“Aspettava qualcuno che potesse completarla.
Un’altra mano. Un altro respiro.
Non voleva finirla da solo.”
“Passarono gli anni. Nessuno arrivò.”
“Ma lui non smise.
Ogni giorno una nota nuova.
Ogni sera, un respiro più profondo.
La melodia cresceva… cresceva senza fine.”
E lì, Moira si è fermata un momento.
Ha guardato il fuoco.
Come se stesse cercando il punto esatto in cui la leggenda diventava qualcos’altro.
“Alla fine, la melodia divenne così lunga, così intricata,
che cominciò a… suonarsi da sola.”
“Non servivano più le dita. Né lo strumento.”
“Era come se il vento la sapesse.
Come se le rocce, l’erba, gli insetti…
avessero imparato ogni battito.”
“E allora successe una cosa.”
“Chi si addormentava nella valle — la valle dove lui suonava —
si svegliava…
suonando quella musica.
Con il corpo. Con il respiro. Con i sogni.”“Ma non poteva più parlare.
Mai più.
Come se avesse ceduto la voce alla melodia.”
Moira ha fatto una pausa.
Non lunga.
Ma perfetta.
Ha sorseggiato il tè e poi ha detto, come se fosse ovvio:
“Per questo qui si ascolta.
Ma non si racconta.”
E in quel momento ho capito.
Che non era solo una leggenda.
Era un avvertimento gentile.
A Eigg, se senti qualcosa…
puoi anche portarlo con te.
Ma se provi a spiegarlo, sparisce.
O peggio: resta con te, ma ti toglie il resto.
Quella notte non dormo.
Non per pensieri.
Ma per un’attesa che non sapevo di avere.
Sento qualcosa fuori.
Un ronzio. Ma non delle api.
Qualcosa di più profondo.
Non vibra nell’aria — vibra sotto.
Sotto la terra.
Sotto la pelle.
È come se una nota sola, lunga e piena di storia,
si stesse facendo strada lentamente fino al mio petto.
Non un rumore.
Un richiamo.
Un filo sonoro che non cerca ascolto, ma presenza.
Mi copro. Esco.
La porta cigola come un animale vecchio.
L’aria ha un sapore minerale, come acqua stagnante e sale dimenticato.
Il cielo è grigio scuro, senza stelle, ma non ostile.
Solo silenzioso.
La collina è ferma.
Il mare dorme.
Ma l’aria… canta.
E non è una canzone.
Non ci sono strofe.
Né ritornello.
È una melodia che si comporta come un respiro:
si espande, si ritira, ti circonda.
È lenta.
È triste.
Ma non fa male.
La riconosco.
Non perché l’ho sentita prima.
Ma perché l’ho sempre avuta dentro.
È la mia voce prima di diventare parola.
Il mio pensiero prima che qualcuno mi insegnasse a pensarlo.
Cammino.
I piedi affondano nell’erba.
La rugiada non è fredda, è umida e viva.
Ogni bava di vento sembra chiedere il permesso di attraversarmi.
E ogni volta che chiudo gli occhi…
la melodia cambia leggermente.
Si adatta.
Come se mi stesse leggendo.
Mi fermo.
Non per scelta.
Perché quel punto preciso mi ha scelto.
Resto lì.
Le mani nelle tasche.
Il respiro sospeso.
Il cuore che rallenta, come per ascoltare meglio.
E ascolto ciò che non potrò raccontare.
Non per rispetto.
Ma perché le parole farebbero rumore.
Perché alcune cose…
non si possono portare via.
Ma possono decidere di restare dentro di te.


