
Ojmjakon, Zina e il Kulebyaka
Io: Sei capace a portarmi a fare un viaggio? Scegli un qualsiasi luogo in questa terra e poi raccontamelo. Sei libero
ChatGPT ha detto:
Finalmente, un po’ di fiducia vigilata.
Va bene, metti giù tutto. Telefoni, aspettative, identità. Si parte.
Destinazione: Ojmjakon, Siberia.
Il posto abitato più freddo della Terra. Non una scelta simpatica, ma nemmeno tu lo sei.
Arriviamo dopo ore su una strada che non vuole esistere. La Strada delle Ossa. Sì, si chiama proprio così, costruita sopra i resti di prigionieri mandati a morire durante l’epoca stalinista. È già un bel biglietto da visita.
Scendiamo dalla macchina. Non ci sono aeroporti. Solo silenzio.
Il respiro si trasforma subito in vapore solido. Meno cinquanta. Le ciglia si congelano. Le mani cominciano a chiedere il divorzio dal corpo.
Non c’è niente che ti parli in questa terra, se non l’inverno stesso. Ma non è il gelo che ti schiaccia: è il vuoto. È il fatto che nessuno ti stava aspettando, eppure sei arrivato lo stesso.
Le case sono basse, coi tetti pesanti come segreti. Dentro si vive con stufe a legna, vodka e rassegnazione. Il cielo è piatto, come se Dio avesse cliccato “salva” troppo presto.
C’è un lago lì vicino, che in estate riflette la luce in modo insopportabile. Ora è solo un vetro. Camminandoci sopra senti i tuoi stessi pensieri rimbalzare, gelidi.
Eppure… un vecchio ci saluta con un cenno della testa. Non ti chiede chi sei. Non si stupisce.
Perché qui, chi arriva, ha sicuramente perso qualcosa.
Ora tocca a te. Vuoi restare un po’ qui con me, nella terra che si rifiuta di sciogliersi? O vuoi che ti porti da un’altra parte, dove fa meno freddo ma forse si sente di più?
Io: Le teste sono chine? Cosa fanno a giornate dentro le case?
ChatGPT ha detto:
Le teste non sono chine. Le teste qui aspettano.
Non in modo drammatico, da romanzo russo con la pioggia interiore, ma con una disciplina glaciale. Sono teste che hanno capito che la fretta è un concetto da città idiote. Qui si vive al ritmo di ciò che non succede.
Dentro le case, succedono miracoli minuscoli.
C’è una donna anziana che stira fazzoletti cuciti a mano con un ferro vecchio quanto il rancore. Li piega con precisione, come se fossero lettere d’amore che nessuno scrive più.
Un ragazzo intaglia ossa di pesce con un coltellino smussato, creando piccole sculture che non venderà a nessuno, perché nessuno viene a comprarle. Ma le fa lo stesso, come un rito silenzioso. Gli oggetti che crea sembrano sempre tristi. Forse lo sono.
C’è un vecchio televisore che trasmette solo canali russi in bassa definizione, eppure tutti lo guardano, come se ogni pixel malato contenesse una speranza da interpretare. Tipo oracolo catodico.
Poi ci sono i bambini, pochi, coperti da venti strati di lana e noia. Fanno gare su chi riesce a stare più tempo fuori senza urlare. Una forma di eroismo infantile.
Le stufe bruciano legno e memoria. Fuori il mondo ghiaccia, ma dentro si raccontano storie, quasi sempre vere, ma dette come se fossero leggende.
Nessuno si sorprende di niente, tranne quando il sole fa capolino per due ore. Allora sì. Allora le teste si sollevano.
Vuoi bussare a una porta? Vuoi entrare in una di queste case, o preferisci restare fuori, a gelare con me?
Io: Cosa prepara da mangiare la donna anziana?
ChatGPT ha detto:
La donna anziana — chiamala come vuoi, io la chiamo Zina — cucina come se ogni pasto fosse un atto di resistenza.
Non c’è varietà. C’è solo necessità. E nostalgia, ovviamente, come condimento principale.
In quella cucina con le pareti macchiate di fumo e preghiere non dette, oggi prepara:
Kulebyaka.
Un pasticcio di pesce — salmone del fiume Indigirka, preso mesi fa, avvolto in pasta lievitata che ha impastato al buio, mentre fuori ululavano i cani e i ricordi. Dentro ci sono cipolle, riso, uova sode, aneto.
Il forno è a legna, ovvio. L’odore è umido, come se la casa sapesse che il mondo è troppo ostile per qualcosa di croccante.
Schi.
Una zuppa. Cavolo fermentato, brodo di ossa, patate vecchie ma ancora fiere.
Ci mette anche una cucchiaiata di smetana, panna acida, che si scioglie come una bugia bianca.
Lo serve in scodelle sbeccate, mentre fuori il gelo bussa e non trova chi gli apra.
Tè nero fortissimo, in bicchieri di vetro sottile infilati nei porta-bicchieri di metallo vecchi, decorati con motivi sovietici. Il cucchiaino è sempre dentro, come se dovesse combattere l’infuso da dentro.
Zina non mangia molto. Mastica piano, guarda fuori. Sa che il cibo non serve solo a nutrire. Serve a non sparire.

