Famiglia riunita a cena in villaggio montano, illuminata da lampada a olio con cibo tradizionale.
Dialoghi

Omalo, Mzia e la Leggenda del Ponte che non portava da nessuna parte

Io:Ciao Mo! Puoi portarmi in un luogo a caso. Scegli tu. Ma fammi vivere le persone che lo abitano

ChatGPT ha detto:

Certo, Nicola.
Chiudi gli occhi, ma tieni aperta la pelle.
Ti porto in Georgia — no, non quella degli Stati Uniti.
Quella vera.
La Georgia del Caucaso.
Un paese sospeso tra Europa e Asia, tra vino, rovine e respiri antichi.


Siamo in un piccolo villaggio chiamato Omalo, nella regione montuosa del Tusheti.
Ci si arriva solo nei mesi caldi, quando le strade non sono ancora inghiottite dalla neve.
Il viaggio è così tortuoso che alcuni georgiani di città non ci sono mai stati.

Ma chi ci vive… resta.


Ti presento Mzia, una donna che ha più anni delle sue rughe ma meno rimpianti di quanti immagini.
Indossa un vestito nero lungo, perché è quello che ha.
In testa, un fazzoletto scuro. Non per lutto. Per abitudine.
È stata pastora, madre, sarta, infermiera improvvisata e narratrice ufficiale del villaggio.
Parla con le mani, ma anche con il mento. E ride. Sempre dopo averti osservato bene.

Apre la porta e ti dice:

“Ti preparo i khinkali, ma se ne mangi meno di sette, sei un turista.”
Poi ti fissa, per vedere se reggi la provocazione.


Il figlio di Mzia, Levan, ha un cavallo.
Non per hobby. Per spostarsi.
Va a cavallo come tu vai in cucina a cercare le chiavi: confuso ma sicuro.
È burbero, dice poco, ma ti offre il vino fatto dal vicino. Non perché sia buono.
Perché è l’unico.
E qui, l’unico è sacro.


A Omalo, i cani sono grossi, ma ti annusano e capiscono se sei pulito dentro.
Le case sono di legno e pietra, e sembrano abbracciate tra loro contro il vento.
Il cielo è vicino, ma non ti schiaccia. Ti sorveglia.
E la sera arriva prima, con un odore di lana, terra e brodo.


Vuoi restare a cena?
Mzia serve lobio (fagioli speziati), pane di grano vecchio, e formaggio che sa di fumo e altitudine.
Non c’è televisione. Ma ogni persona è un canale.

E se rimani in silenzio abbastanza a lungo, Levan ti porterà fuori, sulla collina.
Ti mostrerà il paese dormiente sotto la luna, e dirà solo:

“Vedi? Anche i tetti respirano qui.”

fammi stare a cena e mi piacerebbe ascoltare una leggenda locale

ChatGPT ha detto:

Va bene, Nicola.
Siediti. Fa freddo, ma dentro casa di Mzia c’è un caldo che non viene solo dalla stufa.
Viene dal tempo.
Dal pane appena sfornato, tagliato con le mani.
Dal vino rosso scuro, servito in una ciotola di terracotta sbeccata.
Dalla minestra di fagioli che borbotta sul fuoco come se volesse raccontarti qualcosa.

La tavola è bassa. Le sedie scricchiolano. Fuori c’è la notte. Dentro c’è la storia.


Mzia finisce di asciugarsi le mani sul grembiule, ti guarda, e comincia:


🐺 La leggenda del lupo e del pane

“Tanto tempo fa,” dice Mzia, “in un villaggio simile a questo, viveva un panettiere.

Era famoso per il suo pane. Morbido dentro, croccante fuori.
Lo faceva con acqua del fiume e farina che sapeva d’inverno.”

Un giorno, il panettiere trovò un lupo nel suo granaio.
Magro. Con gli occhi pieni di fame.
Ma non gli fece del male.
Gli tagliò una pagnotta, gliela mise vicino, e tornò a dormire.

Il giorno dopo, il lupo era sparito.
Ma il pane… era ancora lì. Intatto.
Solo un morso mancava.
Un morso piccolo. Come un ringraziamento.

“Da quel giorno,” racconta Mzia, “il pane del panettiere non si bruciava mai.
Anche quando dimenticava il forno acceso.
Anche quando sbagliava l’impasto.”

La leggenda dice che il lupo, ogni notte, tornava.
Non per mangiare.
Ma per sedersi vicino alla porta e proteggere il pane.

“Perché chi nutre la fame degli altri,
non verrà mai dimenticato dalla fame del mondo.”


La stanza tace.
Levan appoggia la ciotola.
Fuori, un cane ulula.
Oppure… no.
Forse era un lupo.

E forse non c’è differenza, in certi villaggi, tra chi resta e chi ricorda.


Vuoi che Mzia ti racconti un’altra leggenda dopo cena?
O preferisci uscire sul sentiero con Levan, sotto le stelle, a cercare il rumore del lupo?

Io: Ti prego: un’altra leggenda…

ChatGPT ha detto:

Benissimo.
Hai finito la zuppa. Le ciotole sono vuote ma l’aria è piena.
Mzia raccoglie le briciole con il palmo e le butta nella stufa — “perché anche il pane ha una fine che va scaldata”, dice lei.

Poi si risiede.
Chiude gli occhi.
Li riapre come se avesse trovato la leggenda nella memoria sotto un panno.


🔥 La leggenda dell’uomo che parlava al fuoco

“Una volta, tanto tempo fa, viveva un uomo solo.
Non aveva moglie, né figli, né bestiame. Solo una capanna di pietra, e un focolare sempre acceso.”

La gente del villaggio lo chiamava pazzo.
Dicevano che parlava da solo, ogni sera.
Ma lui rispondeva sempre:

“Non parlo da solo. Parlo col fuoco.”

E il fuoco, pare, lo ascoltava davvero.

“Quando aveva paura, il fuoco diventava più caldo.
Quando era triste, scoppiettava piano, come per consolarlo.
Quando rideva… il fuoco si alzava, danzava, illuminava tutta la casa.”

Un giorno, l’uomo morì.
Ma nessuno trovò il corpo.
Solo cenere.
E un tizzone ancora vivo,
che nessuno riusciva a spegnere.

Lo portarono al villaggio.
Lo misero nel focolare della casa comune.

Da allora, ogni sera, se ascolti bene il crepitio,
puoi sentire una voce sottile.
Che dice:

“Non lasciate che il fuoco muoia.
Non lasciate che il silenzio resti solo.”


Mzia ti guarda.
Ti accarezza il braccio con la mano ruvida, e dice:

“Il fuoco non è per cucinare.
È per ricordare che c’è sempre qualcuno che ci ascolta.
Anche se brucia piano.”

Fuori adesso nevica.
Ma dentro…
siamo caldi.


Vuoi restare ancora, Nicola?
O vuoi portarti via una leggenda e un po’ di pane nel taschino dell’anima?

Io: Vorrei l’ultima leggenda di quel luogo

ChatGPT ha detto:

Va bene, Nicola.
Ti do l’ultima.
Quella che non si racconta agli ospiti, ma che Mzia ti sussurra solo perché hai ascoltato le altre senza interrompere, senza ridere, senza guardare l’orologio.

La stufa è quasi spenta.
La stanza è mezza luce, mezza sogno.
Fuori il vento parla. Dentro, Mzia ricorda.


🌫️ La leggenda del ponte che non portava da nessuna parte

“C’era un ponte, in cima a una gola, vicino a qui,”
dice Mzia con voce bassa,
“costruito da un uomo che nessuno conosceva bene.
Era un muratore, dicevano.
Oppure un folle.
O forse un poeta con le mani rotte.”

Il ponte era bellissimo.
Di pietra, con archi scolpiti a mano.
Ma collegava niente a niente.

Su un lato c’era la montagna.
Sull’altro… il vuoto.
Solo una scogliera, poi il cielo.

“La gente gli chiedeva:
‘Perché costruire un ponte dove non si può andare?’
E lui rispondeva sempre:
*’Perché non è un ponte per i piedi. È un ponte per il coraggio.’”

“Chi ci saliva, si racconta, vedeva qualcosa.
Non fuori. Dentro.”

C’erano quelli che salivano e poi piangevano.
Altri ridevano.
Alcuni scendevano in silenzio, e il giorno dopo… partivano.
Andavano via. Senza lasciare niente.
Senza dire addio.

“Poi il ponte è crollato,”
dice Mzia,
“ma non per colpa del tempo.
Perché nessuno lo attraversava più.
Nessuno voleva più vedere sé stesso.”


La stanza ora è muta.

Tu guardi la finestra.
C’è solo neve.
Eppure senti… che quel ponte, da qualche parte, esiste ancora.

E che forse, questa sera, ci sei salito.
Senza accorgerti.
E sei sceso diverso.
Ma senza fare rumore.

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